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“Incollato allo schermo, in silenzio, ho avuto tutto il tempo di riflettere tra una sequenza e la successiva, a tratti assorto dalla bellezza, colpito dai luoghi, dalla caratterizzazione dei personaggi, a tratti divertito dalle acute esagerazioni di Sorrentino, a tratti commosso dalla vita.
Il tempo, però, non basta, perché le risposte non arrivano. Sono uscito dalla sala con alcune immagini ancora vivide negli occhi, ma senza risposte, illuso di poter trovare un messaggio almeno nell’ultima sequenza con la Parthenope in pensione che torna a vedere la sua Napoli.
Il Cinema di Sorrentino non ci fa la morale
Ma il Cinema di Sorrentino non ci fa la morale e non ha lo scopo di trasmettere un messaggio, rappresenta in Arte la vita, così com’è, e lo fa proprio bene, adoperando una ricchezza visiva unica e accompagnandola dalle canzoni meravigliose e immortali di Riccardo Cocciante (“Era già tutto previsto”, del 1975) e Gino Paoli (“Che cosa c’è”, del 1964). La solita arte teatrale e barocca del regista irrompe nella nostra mente in modo profondo ed efficace, giocando non solo con la bellezza fresca e magnetica di Parthenope, ma anche con quella senza tempo di Capri e di Napoli. Ripercorrendo la pellicola dall’inizio alla fine appare chiara la rappresentazione di una vita, quella della protagonista, suddivisa in frammenti-ricordo: dalla nascita, all’ampio spazio centrale della giovinezza fugace, fino al ritiro ed al pensionamento.
Le tappe della vita in frammenti esperienziali di memoria
Immediatamente mi accorgo di quanto, in effetti, anche la mia mente abbia già tenuto traccia della mia stessa vita dentro a frammenti esperienziali di memoria, vissuti e archiviati come fondamentali pietre miliari di un’epica assolutamente personale, avulse da qualsivoglia connotazione etica o morale. Così, avvio la mia introspezione e comincio a viaggiare per “flash” indietro negli anni, ricordando quanto anche per me quei frammenti siano stati inequivocabilmente alimentati e plasmati dal mistero dell’amore. Amore che, per quanto mi riguarda, si è sempre rivelato inscindibile rispetto al concetto di bellezza, quale espressione della femminilità che seduce e cattura lo sguardo, in cui periodicamente mi sono imbattuto con stupore.
Personalmente, sono convinto che il film sia tanto più apprezzabile dallo spettatore quanto più questi si sia trovato a vivere con profondità molteplici momenti della sua esistenza e, in particolare, della giovinezza. Non posso quindi invidiare chi non riesce ad apprezzare intensamente, perché con ogni probabilità si trova ad un certo punto del cammino, ma senza aver mai vissuto davvero, o comunque senza averlo fatto abbastanza.
La genesi del dramma
Provando a mettere a fuoco la genesi del dramma del fratello di Parthenope, che ha avuto la “colpa” di innamorarsi della sorella, mi appare più evidente un triplo binario nel film, in termini di approccio alla vita, che è generato dal singolare triangolo amoroso dei tre giovani.
Da una parte il fratello, che non riesce da solo a confrontarsi e a gestire l’intensità delle proprie emozioni e che, sentendosi sedotto, sconfitto e tradito ed immaginandosi in un vicolo privo di ogni uscita felice, finisce per privarsi con il gesto estremo di qualsiasi altra futura esperienza umana.
Dalla parte opposta Parthenope, che “non ti ama, perché fugge sempre”, come dichiara il fratello stesso all’amico. Una ragazza e poi una donna che ha riempito la sua esistenza in totale libertà con esperienze di continua ricerca, le più disparate, che costituiscono il filo rosso del film, senza però mai condurla al culmine della pienezza, complice anche il dolore per la morte del fratello e la conseguente sovrapposizione tra il concetto di vivere e quello di sopravvivere. La protagonista, in versione senile, si trova infatti al termine della pellicola ancora sola, apparentemente almeno, agli occhi dei propri studenti che le chiedono apertamente di raccontar loro della sua vita privata, tenuta per decenni in gran segreto. La donna dà l’impressione di interiorizzare tutte le domande dei ragazzi lasciando aperta l’incognita su che cosa pensi davvero di tutto il suo percorso di vita, domanda che ritorna in diverse sequenze del film, in maniera certamente più connessa con le circostanze di contesto ma, a mio avviso, in forma non meno profonda. L’incognita, che domina tutta la seconda parte del film, ad un certo punto prende forma in una domanda precisa durante la sequenza con il vescovo: mistero o truffa? Alla quale, come anticipavamo all’inizio, il regista non vuole dare risposta… forse.
Nel mezzo, rispetto a Parthenope ed al fratello, l’amico Sandrino che, soggiogato da sempre dall’incantesimo d’amore per Parthenope, sembra essere l’unico alla fine a trovare una via non estrema per ricominciare a vivere… forse, malgrado le provocazioni della protagonista, reiterate persino nel momento dell’addio.
L’armamentario estetico a contorno
A contorno, il regista sfoggia tutto il suo armamentario estetico e aforistico arricchendo il variegato panorama di esperienze di Parthenope con altre maschere grottesche: lo scrittore gay e alcolista americano, il riccone eccessivamente pressante e apparentemente gentile, il professore di antropologia che si prende cura del figlio esageratamente disabile, il vescovo esageratamente sacrilego, il camorrista che la invita al rituale imbarazzante, le dive in decadenza e i volti della bellissima Napoli fatta anche di anfratti poveri e prostitute.
In conclusione
Che dire in conclusione? Un film che sprona a vivere, a “vedere”, a tenere in vita i ricordi vissuti, che sbiadiscono con lo scorrere del tempo, ma che saranno gli unici a garantirci la sensazione di aver vissuto sul serio.
Ecco, la mia personale lettura di un capolavoro del Cinema. Mi prenderò ancora del tempo per metabolizzare il tutto: una seconda visione potrebbe aiutare… forse.
Ringraziamo intanto il regista per avercelo regalato.”
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Filippo Scarabelli
Fondatore di Belproblema.